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Le cronache dell’Altai

Visto che soggiornare nella più caotica, moderna e rumorosa città della Mogolia ci interessava davvero poco, decidiamo di fare quello per cui eravamo venuti: entrare a contatto con la loro cultura meno contaminata dall’occidente.

P1040814~2Così, con i nostri nuovi compañeros francesi, Lore e Gaspar, ci dirigiamo in volo verso nord-est nella regione Altai, ai confini tra Mongolia, Cina e Kazakistan, luogo in cui si racconta che si possono ancora trovare i resti di antiche religioni sciamaniche e rocce con incisioni di epoca preistorica che svettano su prati ricoperti di fiori, terra di antichi riti pagani e di panorami mozzafiato. Già sull’aereo appiccichiamo il naso al finestrino per riuscire ad avere un primo assaggio del magnifico paesaggio che ci attende: montagne innevate, laghi ghiacciati e steppa a perdita d’occhio. Atteriamo ad Olgi, la cittadina più grande della regione, famosa per “l’eagle festival” che si tiene ogni anno all’inizio di ottobre e che ci siamo persi per un soffio. Qui cominciano i preparativi per la nostra avventura: ci acculturiamo nel quasi inutile museo di storia e cultura, passiamo per qualche supermercato ma sopratutto andiamo al mercato nero dove oltre ad acquistare riso, banane, mele, cipolle, carote e patate (che saranno l’unico nutrimento per i successivi 10 giorni), le caldissime calze di cammello (1 paio 2500 tugrik), una super imbottita calzamaglia cinese (5000 tugrik) e un bellissimo e morbidissimo
cappellino di Yak (40000 tugrik), da veri local facciamo una partita a biliardo utilizzando uno dei 20 tavoli presenti all’entrata del mercato. L’atmosfera che ci circonda è suggestiva ed interessante, le postazioni di gioco sono all’aperto, sullo sfondo montagne, c’è in dotazione un’usurata stecca per tavolo ma sopratutto su 80 giocatori presenti io ero l’unica donna…. nonostante il risultato non sia stato a mio favore mi sono davvero gasata…

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La sera decidiamo di preparare i “cavatelli”, così anche la signora Mongola ne fa’ bagaglio, e poi ci godiamo l’ultima notte in un letto.

La mattina seguente partiamo con il solito indistruttibile furgoncino 4×4 che abbiamo già straconosciuto in Russia, direzione Sagsay. Vorrei dire paesino ma sarebbe sbagliato e soprattutto non renderebbe l’idea, perchè non esiste un vero e proprio agglomerato di case, le abitazioni sono sparse qua e là. Noi abbiamo l’onore di essere ospitati da una famiglia che come prima attività alleva aquile, animale utilizzato per cacciare. Veniamo subito accolti dalle donne nel migliore dei modi: ci fanno accomodare in casa e, mentre allesticono il tavolo riempiendolo di ciotole per il tè e del loro tipico formaggio, ci friggono sul momento delle tartine di acqua e farina…

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noi ci guardiamo intorno, vorremmo porre mille domande ma avendo rinunciato alla guida parlante inglese (fattore spesa) cerchiamo di intuire e dedurre, in più rimaniamo catturati dai coloratissimi teli appoggiati sui letti, sul pavimento o affissi ai muri, dalla semplicità “dell’arredameto” e dalla naturalezza di queste persone che vivono senza le nostre comodità..( inutile dire che non hanno nè bagno nè acqua corrente ma in “compenso” hanno un televisore alimentato con il pannello solare)

Qui abbiamo le nostre prime grandi rivelazioni:

– il tè Mongolo è molto particolare, scaldano il latte di yak misto ad acqua, prima di versarlo nella ciotola lo passano attraverso un filtro dove sono contenute le foglie del tè e poi lo condiscono con un cucchiaino/cucchiaio di burro salato

– il loro formaggio tipico (l’unico presente su tutto il territorio) può essere di varie stagionature ma quello che si trova più spesso sulle tavole è così duro da dover essere tagliato con mannaia e martello, anche quando lo devi magiare, per non spaccarti i denti, lo ammolli per almeno 20 minuti nel tè caldo

– la stufa, con la quale fanno tutto, dal preparare da mangiare a scaldare l’ambiente, viene alimentata con la cacca di Yak secca, mi sono così spiegata i cumuli immensi che si trovano vicino alle case, ma la cosa più incredibile e che non fa’ nessun tipo di odore.

Abbiamo giusto il tempo di acclimatarci un attimo che i 2 uomini rientrano a cavallo con aquila a braccio, così le donne gli lasciano subito i posti migliori, gli servono il tè e via che ricominciamo tutti a mangiare. Bisogna tener presente che per ospitalità le donne Mongole non vi lasceranno mai con la ciotola vuota quindi se non gradite più del tè non finitelo tutto. Appena terminiamo di rimpinzarci comincia lo “show”, ci fanno fare qualche foto con 20 kg d’aquila poggiata su un braccio e ci mostrano qualche esercizio che di solito utilizzano durante l’allenamento… bello, un po’ troppo programmato ma bello.

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Per non farci mancare nulla ci aggreghiamo, come spettatori, alla pesca, iniziamo così ad immergerci nella steppa Mongola, costellata da yak, cavalli, mucche, montoni e cammelli liberi e selvaggi.  La sera mangiamo tutti assieme alle 18.30 (fate conto che questa famiglia, per l’orario della cena, può essere paragonata agli Spagnoli in europa) e qui comincia la nostra lunga serie di dormite sul pavimento…..(viva i materassini autogonfianti di Decathlon).

La mattina seguente ci svegliamo a suon di martellate, la madre di famiglia sta tagliando il formaggio per la colazione, che verrà degnamente accompagnato dal tè mongolo e dalle tartine di acqua e farina (io la chiamo colazione ma in realtà loro si nutrono di ciò a tutte le ore del giorno). Li ringraziamo e li salutiamo alla volta della prossima famiglia. Ci dirigiamo verso la “cittadina” di Altai, dove un agglomerato di case esiste ma coloro che ci ospiteranno vivono nella steppa desolata. Per entrare in questa parte della regione abbiamo bisogno del passaporto e di un permesso speciale perché si deve attraversare un “pre-dogana” dato che i monti che la costeggiano sono per metà in Cina. Anche qui ci accolgono con il tè Mongolo, il formaggio e le frittelle di acqua e farina; in più anche questa famiglia addestra aquile, ma la piccola differenza è che qui, con un dizionario mongolo-francese,  riusciamo a capire qualcosina: le aquile hanno un vita media di 30 anni, per il primo anno vivono in casa in modo da familiarizzare con l’odore del padrone, sono delle cacciatrici perfette (in modo particolare sono famose per il braccaggio del lupo) e dopo 20 anni di onorato servizio vengono messe in libertà. Fatta questa lezione introduttiva il capo famiglia ci regala un copri occhi d’aquila in pelle che viene utilizzato per occultarle la visibilità e farle rimanere immobili.

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Qui facciamo la nostra prima passeggiata a cavallo, che essendo animali liberi, vengono presi al lazzo per essere sellati. Ci rimarremo in groppa per 7 ore che, nonostante siano facili da montare perché tozzi, per chi non è abituato diventano decisamente impegnative, senza contare che al buffo verso “ciuff” insegnatoci dalla guida per spronarli raramente fanno una piega. Per fortuna, durante il lungo tragitto, facciamo tappa in qualche Ger (casa-tenda tipica mongola) per scaldarci, rifocillarci (con le solite cose) e riprendere consapevolezza del nostro sedere. Al rientro ceniamo (ore 17.30) e dopo mangiato riesco ad assistere parzialmente al trattamento di un montone appena ucciso.

La mattina seguente rubo qualche sprazzo della loro vita quotidiana: trovo la madre a mungere uno yak, la figlia piccola che su una slitta artigianale gioca in una pozza ghiacciata, il figlio più grande che cerca di catturare qualche cavallo per andare a caccia e il padre di famiglia che non fa’ nulla, cosa assai normale per la loro cultura.

Il 4° giorno ripartiamo per un lago chiamato Tolbo Nuur, qui iniziamo a vedere la prima neve e conosciamo i nostri primi Kazaki. …. conosciamo per modo di dire perché l’inospitalità di questo popolo è famosa e ben meritata. Ci offrono alloggio in una catapecchia che probabilmente non veniva utilizzata da anni, ci montano la stufa, ci portano della cacca di Yak e voilà la residenza è pronta… per fortuna eravamo provvisti di materassini e vestiti caldi perché la temperatura, anche in casa, scendeva ben sotto lo 0, infatti  non avrei mai pensato di desiderare, in vita mia, tanta cacca di animale e lì, oltre ad averla sognata, sono andata a raccoglierla più è più volte.
Ma è valsa davvero la pena di fermarci un paio di giorni, il lago è spettacolare, mi ha lasciato senza fiato. È attorniato da una catena montuosa con magnifiche cime bianche, ed è circondato da tanti laghetti completamente ghiacciati che si riescono ad attraversare da parte a parte tanto è lo spessore del ghiaccio. Solo alcune temerarie famiglie Kazake vivono sulle sponde. Per fortuna in questo posto riusciamo a farci una bella passeggiata di 6 ore… a volte mi dimentico di scrivervi che la presenza di cavalli selvaggi, yak e cammelli ormai è una costante, quasi, e dico quasi, non ci faccio più caso…

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I 2 giorni successivi li passiamo nel Tavanbogd park, la vera destinazione della nostra escursione, e mai montagne mi hanno più deluso: sarà stato il vento, il freddo, la faticosissima passeggiata in groppa a cavalli dalla lentissima andatura (dove abbiamo rischiato di morire assiderati, se non fosse che ad un certo punto del tragitto siamo riusciti a rifugiarci in una casa abbandonata e abbiamo acceso un fuoco improvvisato) e l’antipatia dei Kazaki che ci hanno ospitato ed accompagnato per la valle… ma da ciò ho ancora una volta dedotto che: LA VERA BELLEZZA DEL VIAGGIO NON È LA META MA LA STRADA PERCORSA PER ARRIVARCI.

Ps: in realtà fino all’ultimo momento di questo piccolo viaggio riusciamo a stupirci, facendo conoscenza, sull’aereo di rientro ad Ulaanbaatar, di una coppia Californiana che si trova in viaggio dal 1972, i miei nuovi eroi.

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